martedì 1 dicembre 2009

Edilizia in rete: on line publishing B2B di successo

Il settore edile rappresenta un esempio per la comunicazione on-line. In particolare, quello che ho notato è che, proprio riguardo a questo comparto, negli ultimi anni c'è stata una forte mutazione dei canali di informazione: se ieri le riviste trade rappresentavano il canale principale di aggiornamento per gli operatori, oggi sono i portali on-line a registrare l'interesse per i professionisti del settore, che scelgono il web per tenersi aggiornati sulle ultime normative e novità di prodotto o servizio.
Prima di vedere nel dettaglio come si comporta l'editoria nel settore dell'edilizia on-line (se manca qualche realtà basta segnalarlo nei commenti e provvederò a integrarla nell'articolo), c'è almeno una considerazione che reputo importante per capire perché, questo settore, ha successo sul web. Ebbene, la mia personale ipotesi è che nel settore edilizia esistono molte differenti competenze, che coinvolgono più figure professionali: dagli ingegneri agli architetti fino a tecnici e manovali. Personalmente non so' quale sia il numero complessivo di operatori, ma, se l'intuito non mi tradisce (anche in questo caso ogni contributo è ben eccetto), credo che il numero di tecnici e manovali sia maggiore del numero di professionisti. Analizzando però i dati forniti, ad esempio, nella brochure di edilportale si nota che la categoria che sono proprio i professionisti ad utilizzare maggiormente la risorsa internet per motivi professionali. Il punto, come già espresso altre volte, è che i siti/portali/qualsivoglia chiamarli di tipo professionale, funzionano se il pubblico ha una cultura medio alta oppure è già costretto ad utilizzare internet per lavoro e ne ha compreso appieno i meccanismi.

Perchè funzionano?
Perché rappresentano delle vere e proprie banche dati utilizzabili dagli utenti: si trovano tutte le informazioni utili per migliorarsi sul lavoro; dalle novità di prodotto alle ultime normative, che riguardino la sicurezza o l'ecosostenibilità e perché spesso consentono all'utente registrato di interagire, sia in appositi forum tematici, sia attraverso commenti (ove si può).

E il modello di business? 
Non solo display advestiring, ma anche newsletter e affiliation. Su molti di questi siti è possibile scaricare o acquistare programmi di progettazione, guide e altri materiali, mentre il contatto diretto con l'azienda è filtrato dal sito. Anche il posizionamento degli articoli in homepage è venduto (speriamo non il loro contenuto, ma non sarebbe un dramma).

Due casi importanti

www.edilportale.com
Storico sito dell'edilizia, si dice che questo portale, con il suo carico di utenti abbia mandato in crisi il modello delle riviste b2b del settore. Oggi, (1/12/2009) conta oltre 265.000 iscritti e rappresenta il punto di riferimento del settore, non solo in termini di consultazione ma anche di monetizzazione, al punto che hanno realizzato una vera e propria brochure chiamata "guida al webmarketing su edilportale.com" e già hanno realizzato applicazioni mobile.

http://www.ediliziainrete.it/
Questo sito è l'emanazione diretta delle riviste b2b che in passato dominavano il mercato (sono proprio le redazione delle "vecchie" riviste a contribuire con i contenuti). La casa editrice Bema ha infatti cercato di limitare lo strapotere di edilportale con un progetto on-line in cui confluissero le esperienze maturate in anni di attività editoriale. In questo caso a domincare è la pubblicità tradizionale di tipo display, anche se è possibile richiedere informazioni aggiuntive sui prodotti compilando un form on-line (una sorta di affiliation che non so' se sia remunerata o meno dal produttore). Non sono citati gli iscrtti, ma è comunque presente un forum di discussione diviso per aree tematiche.


Guida all'edilizia in rete
Di seguito una serie di altri siti che trattano il tema dell'edilizia in ottica b2b per chi volesse approfondire l'argomento:

Edilpro

Edilizia.com

Edilio

Edilweb

Infobuild

Edilia2000

Storemat Segnalato nei commenti un sito che vuole mettere in contatto tutta la filiera dell'edilizia. Il sito, oltre a riportare tutti i nuovi prodotti proposti dalle aziende e le news di settore più rilevanti, permette una selezione merceologica dei prodotti e produttori, una "sorta" di catalogo on-line per i professionisti del settore e chi necessitasse di trovare un articgiano o un rivenditore di un determinato prodotto.

Conclusioni
Perchè il "modello edilizia" funziona nella comunicazione on-line? La mia teoria, oltre al fatto che il mercato cui si rivolge è particolarmente ampio e variegato, è che in questo settore è stato fatto un ottimo lavoro di affiliation e di offerta di informazioni e servizi gratuiti. Non solo, molti di questi portali sono oramai consultati anche da utenti comuni (non professionisti) che "atterrano sulle pagine prodotti o sulle notizie attraverso il search. Un esempio, insomma di come sviluppare un ottimo modello di busines per tutto l'on-line.

Riassumento: furmula del successo dell'edilizia in rete

  • Puntare sull'affiliation e permettere agli utenti la richiesta di preventivi.
  • Gestire l'autorevolezza attraverso l'interazione con gli utenti, in una parola lasciare gli articoli commentabili.
  • Diventare un punto di riferimento per gli operatori anche grazie all'implemento di funzioni social, come forum e pagine personali per filtrare le notizie.
  • Monetizzare in maniera diversificata: affiliation, display, vendita spazi homepage Per gli articoli, vendita prodotti eccetera (aggiungerei vedita search interna su determinate keywords).
Vi prego di lasciare nello spazio commenti ogni segnalazione di altri siti da aggiungere all'elenco o alcune specifiche funzionalità che secono voi rendono un portale migliore dell'altro.

Lo scopo di questo articolo è di creare una guida completa e utile oltreché analizzare un modello di business on-line che funziona meglio di altri.

N.B.
Questo articolo è costantemente aggiornato

mercoledì 4 novembre 2009

Internet e la pubblicità, cioè IAB

Non aggiungerò un'altra cronaca di quello che è stato lo IAB forum 2009, quella la si può leggere un po' ovunque su internet o sul blog dello IAB stesso. Anche per quanto riguarda i contenuti, trovo che sostanzialmente non sia stato detto, durante la due giorni milanese, nulla di così innovativo di cui non si sia già parlato, e tanto, in rete: investimenti in pubblicità su internet crescono, la rete è sempre più social eccetera eccetera, temi noti a chi segue con un minimo di raziocinio gli eventi dell'online. Ci sono invece due aspetti che mi preme sottolineare e che sono uno positivo e uno negativo. Nella sessione plenaria del 4 novembre, infatti, sono emersi due aspetti trasversali che mi hanno sorpreso e che rappresentano una buona e una cattiva notizia. Nella tarda mattinata del 4 si è svolta una tavola rotonda che aveva come protagonisti gli investitori pubblicitari, le aziende cioè che investono sul web. Si è trattato di un incontro interessante che ha dato due messaggi importanti, che sono scivolati quasi a latere della discussione generale.


Lo strano caso del display advertising
la prima notizia che mi ha colpito è stata come, in un epoca di social marketing e web 2.0, alcuni tra i più importanti Big spender della comunicazioni reputino ancora fondamentale il Display advertising, una formula che, secondo molti, era destinata a sparire.Tutte le grandi aziende che erano presenti (e parliamo di marchi noti come BMW, Kraft, Henkel, Nestlé...), invece, investono da un 10% a un 20% proprio in tipo di comunicazione il proprio budget destinato all'on-line (che nel caso di BMW è di appena un 5% del totale, sembra poco ma è molto considerato che la media delle case automobilistiche spende il 3%...). Il brand awarness quindi, conta ancora e bisognerà riflettere su questo tipo di informazione.


Investitori come concorrenti
L'altro tema, sempre arrivato da chi sta "dall'altra parte" della rete, ossia gli investitori, è che sempre più spesso le grandi aziende non si limitano a creare dei portali aziendali, magari con funzioni sociali, ma crano nuovi canali di comunicazione sfruttando altri e nuovi siti internet. Tra i casi citati c'è sia l'esempio di BMW, che ha creato un sito per i possessori o potenziali della Serie 1, sia quello di Henkel, che da dieci anni or sono ha creato il portale DonnaD. Quest'ultimo non è un sito aziendale o promozionale, ma un vero e proprio portale di informazione al femminile. Un portale, insomma, che fa concorrenza alla classica editoria e su cui è anche possibile acquistare pubblicità.


Se da una parte, quindi, si può pensare che anche la crescita degli investimenti su internet sia una buona cosa (non è stato detto che Google è cresciuto in maniera esponenziale mentre gli altri si attestano su valori molto più umani) e che la formula display non dispiaccia a chi investe, è però anche vero che buona parte del marketing on line utilizzerà le proprie risorse per creare proprie piattaforme di comunicazione, per entrare in maggior contatto con i propri utenti/clienti.


Banzaiiiiiii
Una chiosa finale su quello che doveva essere uno dei momenti clou dello IAB Forum, cioè l'incontro organizzato da Banzai dal titolo "chi paga il contenuto".
Gli unici spunti interessanti e leggermente innovativi sono arrivati dalla platea, quando Gad Lerner ha aperto il qeustion time. Di questi, uno è stato toccato da una domanda che chiedeva la strutturazione di piattaforme semplici per i micropagamenti (un tema che merita un maggior approfondimento) e un altro da quella relativa alla monetizzazione dei contenuti NON giornalistici. Se la prima domanda ha come risposta l'aspettare, perché a breve il mondo del web sarà probabilmente rivoluzionato dalle piattaforme proprietarie (leggi e-book e dispositivi mobile) la seconda sembra non aver trovato una risposta unica, ma varie soluzioni leggermente confuse, proprio come, e finalmente la smetto anche io, mi è sembrata questa edizione dello IAB forum.

mercoledì 7 ottobre 2009

Editoria nautica al tracollo

Uno dei problemi maggiori che l'editoria si trova a fronteggiare nel passaggio alla digitalizzazione delle riviste è quello di non avere un modello di riferimento per creare siti web redditizi. Ciò che però non viene, spesso, preso in considerazione è che ogni comparto ha le proprie specificità e, quindi, non è detto che la soluzione sarà univoca. Per capire questo concetto è sufficiente analizzare ciò che accade nel settore tradizionale. Un esempio emblematico è rappresentato dalle riviste del settore nautico, la cui crisi dipende, come in altri casi, da un crollo degli inserzionisti dovuto alla diminuzione delle vendite di questi ultimi.

Nel 2009 si è assistito a una seria crisi che ha colpito, forse più di ogni altro, il settore nautico. Un settore che ha usufruito in ritardo degli ammortizzatori sociali (è stato, in ordini di tempo, uno degli ultimi comparti industriali a richiedere la cassa integrazione ordinaria) e non ha colto in tempo la crisi che si prospettava, forte delle crescite a due cifre degli ultimi tempi. Il risultato di questa politica è stato che molti cantieri hanno stoccato una gran quantità di imbarcazioni pronte sui propri piazzali o presso i propri dealer, senza però rientrare in alcun modo degli investimenti dovuti alla produzione. Il quadro complessivo, quindi, è che molti hanno ancora barche invendute e sono indebitati per mantenere in vita la propria attività. Che centra tutto questo con la pubblicazione di riviste? Molto, perché la nautica è, da sempre un settore che ha investito in comunicazione: le riviste del settore sono moltissime e oggi non vedono pagata la pubblicità. Se da una parte molti cantieri hanno ridotto (se non azzerato) i propri programmi di marketing, altri hanno continuato chiedendo dilazioni infinite agli editori, chiedendo agli editori, in sostanza, di fare da banca per loro in attesa di una ripresa del mercato. Nelle riviste sono così avvenuti tanti cambiamenti importanti, con una transumanza di giornalisti da una testata all'altra in cerca di condizioni migliori (quando non si sono trovati per strada senza lavoro). Ma cosa hanno fatto gli editori per fronteggiare questa crisi? Sostanzialmente si sono affidati alla divina provvidenza, che tutti aiuta ma non fa campare. Non si sono viste attività editoriali innovative, nessuno punta sul web
(a parte qualche caso isolato), nessuno ha tentato strade differenti per riuscire a superare il momento, perché, è bene dirlo, il settore vive di una storicità di rapporti consolidata: in passato i cantieri hanno aiutato le riviste a crescere, oggi ci si aspetta il contrario. Quello che però è in discussione ora è il modello di questo settore. Con una dilagante influenza degli inserzionisti sugli editori e sulle linee editoriali (ma ancor più sugli articoli) le riviste sono di fatto completamente dipendenti dai propri inserzionisti ed è difficile trovare inserzionisti extrasettore, se non nel campo del lusso. Ci si può chiedere se questo modello sia etico (ho sentito con le mie orecchie dire da un importante industriale che le riviste che parleranno bene del suo prodotto saranno ripagate con la ripresa, mentre quelle che si sono dimenticate di lui no, come se dati quali diffusione e credibilità siano fattori marginali), ma in realtà è l'unico che funziona. Chi ha provato a dare un taglio differente alle riviste, magari con inchieste e prove comparative ha mestamente chiuso per mancanza di vendite e investitori. Se per i secondi la spiegazione può essere che il modello secondo cui il giornale è indipendente non è gradito, bisogna interrogarsi sul perché i lettori non abbiano premiato questo tipo di attività. La mia spiegazione è che l'utente che acquista una rivista nautica non sia interessato realmente al prodotto: la barca trasmette passione ed è meglio avere tante belle foto e un testo che racconta le meraviglie dell'oggetto desiderato di uno che indaga sulla qualità costruttiva e la sua praticità.

Il caso dell'editoria del settore nautico dimostra quindi che non sempre la qualità giornalistica è ripagata da un aumento dei lettori. Si tratta di una considerazione a mio avviso importante e che può far guardare alle soluzioni editoriali on-line con un occhio differente: se in molti casi è importante avere dei contenuti di giornalisti professionali e professionisti, è altrettanto vero che l'impatto grafico e la rassegna rappresenta un'alternativa molto valida come modello. Soprattutto in un campo come quello nautico, quindi, l'editoria potrebbe benissimo continuare a sopravvivere on-line, migliorando i propri siti internet e, ovviamente, aumentando l'aspetto "sociale" di questi ultimi. Se il lettore non è interessato più di tanto ad avere informazioni tecniche sulla propria imbarcazione, è comunque interessato alla comunità di persone che stazionano nel porto dove tiene la sua barca, così come alle tante altre informazioni relative agli spostamenti, alle crociere eccetera, come dimostra, ad esempio, il social network theopensea.com, nato da poco tempo in America e che già annovera un certo traffico.


lunedì 28 settembre 2009

Soluzioni per l'editoria di periodici on-line

L'incontro per l'editoria tecnica e specializzata che si è svolto a Milano il 24 settembre 2009 è stata l'occasione per fare in punto sullo stato dell'editoria italiana. Non solo l'editoria B2C, ma anche quella B2C, visto che tra i relatori che si sono alternati sul palco è intervenuto anche De Alessandri, amministratore delegato di Hachette Rusconi Italia. Il quadro che ne esce non è dei migliori, anche i più illuminati editori non sembrano aver trovato la chiave di volta che renda il web redditizio, e il massimo che si è riusciti a ricavare è stata una generica indicazione di puntare il più possibile sui grandi numeri e sui piccoli introiti forniti dagli utenti e da micro inserzioni, che una volta ripetuti e rietute migliaia di volte, dovrebbero portare a una redditività discreta, sempre e comunque non paragonabile rispetto agli introiti di riviste e periodici. Personalmente credo che ci sia un errore di fondo in questo tipo di visione e l'unica indicazione che ho trovato adeguata è stata quella di Paolo Ainio (presidente di Banzai): il web non è un media, è una infrastruttura. Per questo la redditività di una qualsiasi iniziativa non è necessariamente legata a un modello standard, come invece avviene nei media classici. Per questo non è detto che un sistema, che funzione per un settore o per un pubblico di utenti, sia replicabile all'infinito garantendo comunque una remunerazione adeguata. Per questo, infine, le riviste, e in particolare quelle B2B sono avvantaggiate e possono garantirsi introiti validi anche su internet.
Progetti personalizzati
Le premesse da cui partire, che rappresentano esclusivamente mie convinzioni, sono che le aziende che operano nel panorama editoriale B2B hanno il vantaggio di conoscere i settori e i protagonisti di tali categorie merceologiche meglio di qualunque altra start-up internet. Una conoscenza che nasce da anni di contatti e collaborazioni commerciali. In questo non bisogna mai dimenticare l'apporto che un direttore testata, e dei suoi giornalisti di settore, possono apportare in termini di sviluppo di una eventuale iniziativa web. Generare contatti è molto più semplice quando si tratta con associazioni di categoria e quando si possono effettuare presentazioni a platee ampie di utenti professionali, vedi alla voce convegni, fiere e manifestazioni. Se, quindi il ruolo di pr deve essere affidato a un direttore è anche a questo soggetto che tocca il compito di spiegare il funzionamento del suo settore di competenza: quali sono i meccanismi che regolano la distribuzione, quali i passaggi della filiera e, non ultimo, quali le problematiche di accesso alle informazioni che la sua filiera pone in essere. Queste informazioni andrebbero quindi discusse con l'editore (o il suo delegato rappresentante dell'azienda) e con il responsabile IT o meglio il responsabile sviluppo internet. Solo così si può iniziare a buttare giù una infrastruttura che sia interessante per l'utenza internet e solo così il prodotto editoriale (chiamiamolo così, anche se il modello non deve essere troppo rigido) può iniziare a muovere i primi passi.
C'è poi un altro aspetto che, a mio avviso, viene spesso sottovalutato in Italia: l'informatizzazione non è omogenea. Così se un medico o un avvocato o perché no, un giornalista, ha oramai una discreta familiarità con un utilizzo avanzato di internet (e neanche sempre è vero) bisogna pensare che molte categorie professionali non sono così avanzate e spesso non conoscono neanche internet. O forse no? Personalmente penso che la spaccatura sia verticale sull'età e non orizzontale sulle categorie sociali: le generazioni più in là con gli anni sono meno multimediali, ma se si sceglie una fascia media di lavoratori, diciamo fino ai 50 anni, quindi tutta gente nel pieno della propria vita produttiva, probabilmente una buona parte ha un contatto con il mondo digitale, il punto è, di che tipo? Se infatti poco si può fare con chi non utilizza internet, molto si può fare nell'analisi dei propri lettori e di che tipo di approccio hanno con la rete. Un avvocato utilizzerà internet magari per leggere le notizie sui cambi di poltrona, oppure un medico si informerà sugli ultimi ritrovati scientifici o una terapia che non ricorda, in una parola, le persone con una certa cultura di base tendono ad affrontare il web ANCHE per un utilizzo professionale. E gli altri? I lavoratori delle fasce meno colte utilizzano internet? Provate a chiedere al vostro meccanico se legge il giornale su internet, probabilmente vi risponderà di no, ma se poi gli domandate che telefono ha ci sono buone possibilità che vi mostrerà un iphone, con cui si collega sempre a facebook dove ha 870 amici, di cui circa l'80% è gente che non conosce. È una provocazione, ma un fondo di realtà trovo che ci sia, per questo i siti internet devono essere adattati al tipo di utenza cui si vogliono rivolgere.

Social social social
Repetita iuvant diceva qualcuno e oggi nessuno può prescindere dall'aspetto sociale dei siti web. Per questo una piattaforma editoriale deve coinvolgere il proprio pubblico, non una concorrenza a modelli che già esistono, di facebook ce ne è già uno e forse è anche troppo, ma un modello tarato sulle esigenze degli operatori, una piazza virtuale che possa essere uno strumento reale di lavoro, di informazione e, perché no, anche di svago. E i contenuti? Una delle tematiche maggiormente interessanti del convegno del 24 è stata proprio la scelta dei contenuti: la testata, anche nel proprio sito internet può lanciare dei contenuti, in forma di inchiesta, analisi di mercato o quant'altro, ma in questo caso è fondamentale non sottovalutare tutte le discussioni che queste generano sul proprio sito. E a questo punto si giunge a una seconda grave mancanza dell'editoria nei propri portali web: la pressoché totale assenza di redattori web, o meglio di redattori web 2.0. Il ruolo del redattore web, infatti, è cambiato: a mio avviso il redattore web del futuro deve essere una persona preparata sugli argomenti trattati, deve sì, inserire o scrivere i testi del sito ma soprattutto deve moderare le discussioni, è lui, insomma, il caporedattore del futuro. A lui la scelta di seguire un tema piuttosto che un altro in base ai feed della rete, a lui il compito di moderare gli interventi o di cercare risposte a domande troppo tecniche (anche in questo caso l'esperienza e i contatti sviluppati grazie all'editoria tradizionale aiutano e aiuteranno sempre, perché nonostante internet, i giornalisti sono da sempre a contatto con il mondo dell'industria e della distribuzione e per questo possono contare su canali privilegiati di accesso alle informazioni.
Monetizzazione
Nel convegno del 24 si è tanto parlato dei bassi introiti pubblicitari derivanti dalle pubblicità internet. Questo è vero solo in parte e io non credo che non si possa cambiare la situazione. Il punto è: che feed back ha l'azienda dal suo investimento? Ma soprattutto, siamo davvero convinti che si possa continuare a vendere pubblicità con i metodi del 900? La pubblicità è ancora quella del 900 o è cambiata? Io credo sia cambiata e cambierà molto ancora. Vendere un banner, così come il risultato di una ricerca è un qualcosa di vecchio, anche se lo si vende in base ai risultati che raggiunge l'azienda. La vera monetizzazione on-line si otterrà solo quando qualcuno sarà disposto a pagare un prezzo giusto per essere dove deve stare nel momento giusto. I media sono uno strumento di comunicazione e di informazione, ma oggi si è affiancata a questa loro storica funzione anche la possibilità di mettere in diretto contatto utilizzatore e produttore. Se si offre un servizio di comparazione all'utente professionale, se si da l'opportunità al lettore di acquistare o chiedere un preventivo direttamente dal proprio sito, questo servizio ha un valore ben più alto di una semplice campagna di brandawarness. Una campagna di informazione georeferenziata destinata a un pubblico mirato dei propri potenziali clienti ha un costo ancora differente, così come il veicolare messaggi informativi su promozioni e attività di una azienda è un punto di forza per le aziende di uno specifico settore, sia che esse vogliano operare sul sell-in o sul sell-out.
Cross media? Meglio il cloud media
Ma gli editori sembrano ancora troppo legati a logiche di editoria classica, dove lo spazio è limitato il ciclo di vita del prodotto editoriale è legato alla fisicità del prodotto. Nell'era digitale, invece, bisogna tener sempre ben presente che ciò che si pubblica su internet rimane lì, “per sempre” (o almeno finché non muore il server). Per questo l'attività di pubblicazione va modificata, adattata a questa nuova esigenza e, se l'attualità deve essere veloce e istantanea, gli approfondimenti devono essere molto più dettagliati che in passato, perché lo spazio c'è e un lettore che vuole saperne di più deve essere soddisfatto della sua esperienza, più che al “cross media” quindi, che ha sicuramente una utilità in termini di marketing del proprio brand, bisogna pensare i propri siti internet in un ottica di cloud media: le informazioni devono spargersi come una nube attorno a un argomento portante e apprezzato, continuando a indagare e scavare fino a che la tematica non sia eviscerata in maniera completa ed esaustiva, cosiché la sua permanenza in internet possa generare contatti di qualità in futuro.


giovedì 24 settembre 2009

Il mestiere di editori ai tempi dei new media

Si è svolto oggi (24 settembre 2009) a Milano il 3° Forum degli editori tecnici professionali specializzati, un’occasione per comprendere le nuove dinamiche dell’editoria alla luce dei cambiamenti in corso che “sembrano”, almeno sulla carta, ma sarebbe meglio dire sui monitor o sui cellulari, destinati a cambiare il panorama dell’editoria tecnica, professionale e, appunto, specializzata.
A introdurre il tema del Forum ci ha pensato Gisella Bertini Malgarini, presidente di Anes (associazione Nazionale Editoria Periodica Specializzata) e amministratore unico di BE-MA editrice, che ha affrontato in una breve presentazione il problema del cambiamento dei nuovi media, definendo la “rete” un’opportunità per gli editori, a patto che sappiano trovare la maniera giusta di affrontarla.

A diradare le nebbie che avvolgono il panorama della multimedialità nel settore dell’editoria tradizionale ci ha pensato Emilio Cimadori, presidente di Airesis, una società di ricerca e di consulenza di marketing, che ha snocciolato una serie di cambiamenti in atto nello scenario dell’editoria tradizionale e che già a marzo scorso aveva affrontato il tema. Dagli utenti pubblicitari ai lettori, infatti, il cambiamento in atto sembra essere globale: da una parte gli inserzionisti sono sempre più attenti a selezionare i propri investimenti che, con le dinamiche proprie della rete hanno portato un nuovo concetto di redditività, dell’investimento pubblicitario, sempre più misurabile e quantificabile, dall’altra i lettori, che da utenti anonimi e passivi si stanno sempre più informatizzando e pretendono un ruolo attivo nella generazione/organizzazione/fruizione dei contenuti editoriali. Cimadori ha anche analizzato la situazione degli editori tradizionali italiani, giungendo alla conclusione che si riscontra, in Italia, una perlopiù completa “assenza di piani organici di affiancamento tra la carta e il digitale”.
Le motivazioni di un tale ritardo (se così si può dire) sarebbero riassumibili in tre motivi da non prendere necessariamente in maniera singola:
1) È troppo presto per passare a internet (non si sa che fare e comunque la redditività è bassa).
2) Resistenza al cambiamento (da imputare più alle strutture che al singolo editore, in sostanza la resistenza aziendale al cambiamento).
3) Le aziende editoriali hanno altre priorità.

Secondo Cimadori, in definitiva, gli editori, in questo periodo storico stanno “lavorando in un'ottica di breve termine”, che non aiuta a garantirsi un futuro. Proprio in questo periodo, conclude il presidente di Aires, infatti, le case editrici dovrebbero intrecciare un dialogo importante con coloro che fino a ieri consideravano “il nemico”, ossia società specializzate nella generazione e diffusione di contenuti on-line.

I lavori della mattinata sono stati coordinati da Alessandro Cederle, amministratore delegato di Reed Business Information, nel suo ruolo di vicepresidente di ANES. A lui è toccato il compito di introdurre due ospiti per così dire “scomodi” a una platea di editori tradizionali, cioè Paolo Ainio, presidente e ad del gruppo Banzai, una delle più attive aziende del panorama internet Italiano e Marco Camisani Calzolari, CEO di Speakage, azienda produttrice di piattaforme web 2.0.
Paolo Ainio è un nome nel panorama del web italiano, dopo aver contribuito a creare Virgilio agli inizi degli anni ’90 ha aspettato la fine del cosiddetto sBoom (il crollo dei ricavi derivanti da internet che in Italia è durato quasi 6 anni) per fondare nel 2006 Banzai, una società ben nota nel web che annovera alcuni tra i siti più conosciuti d’Italia. Una volta spiegato alla platea di cosa si occupa, Ainio ha affrontato la prima grande questione relativa ai new media: internet. Il web, spiega, “non è un media, ma un sistema”, una infrastruttura, come un’autostrada, che c’è e bisogna comprendere come sfruttare. Il passaggio fondamentale dell’evoluzione di internet è stato quello di essere un mero mezzo di consultazione (“i famosi surfer dei primi anni novanta che cercavano solo contenuti”) a un ecosistema di relazioni sociali. “Ben il 70% del tempo speso su internet è dedicato all’interazione con altri utenti” spiega Ainio, dalle e-mail ai social network, fino ai commenti delle notizia e alla condivisione di “oggetti” digitali (siano essi musica, filmati o articoli). In quest’ottica bisogna anche rinnovare il modo in cui si guardano gli utenti, non più solo professionali, ma appassionati che vogliono creare e condividere contenuti, in una parola i “prosumer”. Per quanto riguarda le ricette per l’evoluzione di internet a la sua monetizzazione Ainio è convinto che sarà la formula Freemium l’arma vincente, soprattutto quando il digitale diventerà al 100% mobile e i pagamenti avverranno attraverso i telefonini di ultima generazione (o strumenti similari).
Marco Camisani Calzolari ha invece posto l’accento sull’utilizzo di internet sottolineando l’importanza, per chiunque si affacci a internet, di una buona competenza in fatto di usabilità dei siti: sempre tenendo a mente concetti come le tecniche SEO e i vantaggi della Long Tail.

La sessione è poi passata al “contraltare” editoriale quando, a prendere la parola è stato Stefano De Alessandri, ad e direttore generale di Hachette Rusconi,azienda del gruppo Lagardére che ha portato la testimonianza di un caso diretto (il portale di Elle e la sua convivenza con la rivista) analizzando una delle questioni più importanti del dibattito: la profittabilità della rete.
In un asse cartesiano il dg di Hachette ha posto infatti i magazine su un piano nettamente opposto ai media digitali: quanto più i primi hanno una produzione di tipo artigianale e “di qualità” tanto più possono garantire una buona resa e un buon rapporto pubblicità/utenti. Nel caso opposto, a leggere tra le righe, il digitale è remunerativo quando la sua produzione è di tipo “industriale, perché si poggia su un basso rapporto pubblicità/lettore. Interessante in questo campo anche il decalogo Hachette per i new media, o, come lo ha definito De Alessandri, il Survival kit che riporto di seguito:

1) Rispetta il tuo brand ma non i vincoli con cui è nato
2) Diffida della “soddisfazione in cerca di bisogno"
3) Differenzia il territorio digitale e il digitale come canale di marketing
4) Assumi giornalisti… ingegneri
5) Digitale non è (solo) contenuto (editoriale)
6) Informazione vs controllo: lascia che gli utenti lavorino per la tua strategia
7) Produci globalmente, adatta e gestisci localmente
8) OGM è qualità
9) Usabilità e qualità
10) La velocit è qualit

Dove l’ultimo punto del decalogo non è un errore di battitura ma un semplice messaggio per far capire come, su internet, le cose rimangano per sempre e possono comunque essere modificate sempre.

A conclusione dei lavori della mattinata è intervento direttamente Alessandro Cederle, questa volta con il cappello da editore, cioè di ad di Reed Business Italia che ha affrontato il tema nell’ottica delle pubblicazioni B2B ponendo un accento importante sul cross media publishing, ossia l’utilizzo differenziato dei propri contenuti su più piattaforme: dalle riviste a internet senza dimenticare congressi e premi (quest’ultimo un settore ancora poco esplorato nel panorama editoriale italiano).
Tra i passaggi salienti di Cederle, il momento in cui ha posto l’attenzione sulla vendita dei servizi editoriali integrati, una vendita che richiede probabilmente personale rinnovato, fatto di commerciali con una spiccata impronta tecnica, che possano spiegare i vantaggi dell’investimento comunicativo nel digitale piuttosto che su altri e ben noti media.

Alcuni temi hanno poi caratterizzato tutta la sessione, tra questi sicuramente quello del costo della pubblicità su internet: se Ainio ha “accusato” gli editori di aver abbassato la guardia offrendo banner e campagne a prezzi stracciati rispetto ad altri mercati, De Alessandri punta invece il dito sulle grandi concessionarie, Google su tutti, che hanno livellato verso il basso il costo della pubblicità on-line.

lunedì 27 luglio 2009

Perchè il web b2b deve puntare sulla vendita diretta

L'editoria b2b, come già ho avuto modo di dire, sta affrontando un problema importante di trasformazione. Per questo, storiche riviste, che esistono da oltre 60 anni, oggi rischiano il fallimento. Si tratta per lo più di pubblicazioni tecniche, volte a ricoprire un ruolo importante nella comunicazione. Così riviste di meccanica, di idraulica, e di tanti altri settori merceologici, perdono oggi una cifra variabile tra il 15% e il 60% del proprio carico pubblicitario. Tuttavia a differenza dei media classici, che vanno in edicola, la crisi di questo settore è meno grave. Certo la situazione congiunturale non è delle migliori e il calo degli inserzionisti non rischia, a breve, di essere definitivo. Per le riviste consumer, invece il problema è più complesso, con budget importanti la platea di visualizzatori di un messaggio pubblicitario è pericolosamente più ampia rispetto alla tiratura di un magazine, senza contare che dalla pubblicità on-line si possono recuperare molte altre informazioni sul prodotto o sull'azienda semplicemente cliccandoci sopra. L'editoria b2b invece ha investitori particolari, il cui scopo difficilmente è quello di comunicare con l'utente finale (almeno in parte) poiché il grosso del proprio lavoro è quello di sviluppare un buon sell-in all’'interno della filiera. Certo, il fascino di conquistare una platea infinita di lettori tocca tutti e tutti pensano che “internet sia gratis” ma non è così e molti se ne stanno accorgendo. Quindi mi sento relativamente sicuro nell'affermare che, questi investitori, se non trovano delle valide alternative torneranno a investire, magari meno, nella carta stampata e in particolare nell'editoria b2b. Perché fare allora un sito web che abbia anche funzionalità di social network? Perché in questo modo il messaggio che queste aziende vogliono dare ai propri clienti è interattivo, migliore e valutabile dal punto di vista dell'investimento.
Tuttavia, queste piccole aziende, difficilmente si rivolgono ad agenzie di comunicazione on-line e difficilmente intraprendono delle campagne di pay per clic del tipo ad-sense o altri. Questo perché temono di disperdere capitale in una comunicazione non mirata. Tutto sommato meglio la vecchia carta stampata a distribuzione certificata. A mio avviso, quindi, una casa editrice oggi può apportare un importante contributo alla digitalizzazione delle informazioni. Se il modello di business network è ben strutturato, allora può effettivamente portare un valore aggiunto all'azienda che investe in pubblicità. Proprio perché queste realtà non hanno dimensioni enormi, diventa fondamentale avere una rete vendita adeguata e qui, le case editrici b2b possono realmente fare la differenza. Un buon team di agenti che presidiano il territorio e hanno un rapporto diretto con le aziende rappresentano una risorsa unica. Il vero, grande limite, è quello di aggiornare queste figure professionali: non si può mandare a vendere pubblicità on-line uno storico venditore di pagine tabellari o di spazi fieristici. Insomma, come dice uno dei venditori storici del mio gruppo editoriale, per vendere bene un prodotto non materiale bisogna far comprendere all'investitore il valore aggiunto che il servizio porta alla sua società. Certo, magari, la parte di banner può anche essere venduta con un concessionario internet, tipo Google, ma i servizi più complessi, che possono rappresentare la vera alternativa di guadagno, devono essere venduti separatamente e personalmente a ogni singolo potenziale investitore. Un business network non può essere al traino di un concessionario e di campagne pay per clic omologate e standardizzate sul consumer: serve una dinamicità diversa, completamente push sul commerciale e accattivante per il cliente.

martedì 21 luglio 2009

Social Network nel settore Food

Da quando ho aperto questo blog, con l'idea di creare un piccolo gruppo di discussione sui social network e il futuro della comuncazione trade, o b2b, sono stati in molti a scrivermi commenti e segnalarmi propri siti di carattere sociale o business. Per ogni segnalazione sono andato a vedere i siti che mi venivano proposti e ho cercato di giudicarli in maniera più distaccata possibile. Nonostante il blog sia relativamente recente, grazie a queste segnalazioni mi sono potuto fare un'idea più precisa del concetto di "social network", non solo. La definizione classica di social network ha assunto, nelle mie varie pellegrinazioni un significato via via più restrittivo, creando, nell'universo delle relazioni, dei sottogruppi che reputo importanti. Qualche anno fa, affermai che fare un convegno sui "blog" era qualcosa di complesso: essendo il blog la massima libertà di espressione dell'individuo, ognuno parla di ciò che vuole, si può al massimo studiare il fenomeno sociologico, più difficile incentrare un discorso di "comunicazione" attraverso i blog. Così oggi la penso sui social network: ha senso parlare di social network? Ogni settore sociale ha le proprie caratteristiche e molti social network generalisti, dove cioè, ognuno fa come gli pare, non riescono ha monetizzare. Il quadro sta però rapidamente cambiando: oggi i social network possono realmente fungere da strumento informativo e di business. 

L'esempio di Vinix
Un esempio lampante è dato dai siti destinati al settore Food. Come accennato anche altrove, in questo settore esistono, già oggi, alcuni siti per la ricerca di ristoranti (di tutti i tipi), come il mangione o due spaghi. Questi due siti, sono veramente validi per l'utente comune che cerca un locale, e può, grazie ai commenti della community, valutarne la qualità. nessun servizio è però offerto alle aziende che si promuovono se non la visibilità. Tra i siti che mi hanno segnalato, invece, c'è ad esempio Vinix, un social network vocato soprattutto al settore enologico, ma che si è furbamente dato come sottotitolo "wine and food social network", abbracciando così, di fatto, tutto il settore food. Oltre alla recensione dei locali, il vantaggio di questo sito è che offre una pubblicità mirata grazie a un sistema chiamato "tag advertising" che ha come obiettivo quello di posizionare la "pubblicità solo sulle pagine che parlano di argomenti attinenti a quello che vuoi promuovere", come cita la pagina di VInix. Questo sito ha, a mio modestissimo parere, almeno un paio di problemi: da una parte l'0inserimento delle schede di presentazione di un locale, possono essere fatte da tutti gli utenti, così mi è capitato di verifcare che alcuni locali, recensiti dai proprietari, sono in netta contrapposizione con i commenti (in buona sostanza ritengo che, i proprietari di un locale debbano esclusivamente compilare una scheda di presentaizione e non debbano poter esprimere giudizi su loro stessi). Dall'altra, la forma pubblicitaria proposta, per quanto mirata è esclusivamente tabellare. 
Il "business network" Foodclub
Un po' meglio, va con un nuovo sito destinato al settore: Foodclub da poco lanciato dal colosso Reed Business. Questa multinazionale è, infatti, una della maggiori case editrici b2b al mondo e ha da tempo iniziato a scandagliare il settore web come alternativa agli introiti della carta stampata. Nell'ambito del social networking ha lanciato già un paio di siti di cui uno già destinato al settore food (la brigata), ma è con questo nuovo prodotto editoriale che, a mio avviso, è stato fatto un piccolo passo avanti nel settore dei "business network". Il sito, infatti, ha un forte orientamento consumer (è possibile geolocalizzare locali e leggerne le recensioni) ma anche un anima b2b. Oltre alla possibilità di proporre il proprio pdv, il negoziante ha accesso a numerose notizie, nonché la possibilità di entrare in contatto con i propri fornitori. Questi ultimi hanno la possibilità di veder recensiti i propri prodotti e garantirsi una buona visibilità con i propri clienti finali che, essendo registrati, sono più facilmente monitorabili.
Questa è dunque la formula definitiva del business network? Personalmente ho rilevato almeno un paio di migliorie possibili del sito (non me ne vogliano i colleghi di Reed). Da una parte, infatti, i prodotti proposti dalle aziende non sono commentabili, un bel disservizio in ottica 2.0.
Certo, le aziende inserzioniste non saranno mai contente di vedere giudicato, magari, il proprio "forno per panifici", ma la forza dei social network è proprio l'interattività e quindi, la possibilità di avere un feedback dagli altri utenti. Dall'altra, un motivo di confusione può derivare dalla commistione tra la parte "professionale" e quella "pubblica". Mi spiego. Nel 99% dei casi, il navigatore internet entrerà nel sito con una landing page di prodotto o di un locale. Se trova l'informazione cercata a questo punto vorrà navigare il sito, ma rischia di trovare tante informazioni che non sono di suo interesse. Il navigatore professionle, invece, si presuppone (forza del commerciale) che affettui la registrazione al sito ed effettui il log-in ogni volta che arriva sul sito, un po' come avviene con linked-in o facebook. In questo caso però, una volta entrato, ha accesso alle stesse informazioni che aveva prima (salvo la possibilità di fare domande o essere interattivo per commenti e altre funzioni), un po' poco.
Il futuro dei social network?
Ho citato questi due siti (e ne ho espresso qualche commento ovviamete opinabile e personale) per un motivo sostanziale, che poi è la base del ragionamento che mi preme. Molti siti e social network si stanno specializzando, e in ogni settore si stanno migliorando delle formule di aggregazione tramite network. Ma solo prendendo il caso in esame, il settore Food, si può facilmente notare come esistano già vari social network (ce ne sarebbero da citare anche altri) oltre che siti di vendita diretta (vedi, ad esempio, Egnam) probabilmente destinati a fondersi in uniche entità che faranno tutto. La forza di un social netwrok, tuttavia, è proprio data dal numero di iscritti, e questi setttori, come il food, hanno numeri basi di utenti professionali (almeno se comparati con le logiche internet di eCPM ed eCPC). Non solo, mentre a livello cartaceo è possibile segmentare il mercato tra più editori (un ristorante può rivcevere anche 6 o 7 riviste e magari sfogliarle tutte) difficilmente si è attivi su più di un social network (o almeno, si può essere presenti su tutti ma attivi su uno) e gli introiti pubblicitiari possono essere realizzati solo se c'è una relativa atività sul sito.
In buon asostanza il problema credo che la guerra tra social network specializzati sia destinata a crescere rapidamente nel breve periodo e che, con il passare del tempo, forse, gli editori riconsquisteranno una buona fetta di mercato.

 Aggiornamento 7/7/2010
Mi segnalano oggi il nuovo social network Geomercato un nuovo social network destinato all'acquisto di prodotti a chilometri zero. Si tratta di una iniziativa chiaramente B2C ma che può creare una buona sinergia tra i produttori. Un bell'esempio che speriamo dia i suoi frutti.

domenica 5 luglio 2009

Come creare una banca dati per social network

Nell'ottica di creare un “business network”, con il gruppo di lavoro con cui ci occupiamo della parte tecnica (composto dal sottoscritto e dal'informatico della casa editrice), il primo problema da affrontare è stato quello della strutturazione di una banca dati efficiente per lo sviluppo di un social network rivolto al b2b.
La scelta iniziale è stata quella di valutare se il social network dovesse essere un unica piattaforma o dedicato alla singola linea editoriale. La scelta è stata quella di selezionare una singola rivista perché, a nostro avviso, solo in questo modo, si può venire incontro alle esigenze dei professionisti che operano in un determinato settore. La mia personale esperienza diretta, infatti, (curo tre magazine che si occupano di settori differenti) mi ha insegnato che ogni categoria professionale ha attori specifici e problemi di comunicazione propri, ragion per cui, dinamiche che vanno bene, ad esempio, nel settore medicale non possono essere applicate al settore food. Ogni settore ha proprie caratteristiche commerciali e di vendita, ragion per cui ogni singolo comparto necessita di strumenti adeguati. Il secondo problema che ci siamo posti è stato quello di creare una banca dati altamente flessibile, per poter rendere il social network facilmente modificabile, anche in corso d'opera, senza creare disagi per gli utenti.
Il problema maggiore che ci siamo trovati a dover risolvere riguarda il tipo di struttura che abbiamo in mente. Partendo dal presupposto che differenti attori della filiera distributiva di un comparto hanno bisogno di informazioni differenti, ma soprattutto, devono poter compiere azioni, all'interno del social network, differenti, abbiamo stabilito che l'unico database condiviso da tutti fosse esclusivamente l'anagrafica. A questo punto, grazie a un ampio utilizzo di puntatori (se il mio informatico legge queste pagine mi dice che sono un dinosauro dell'informatica) sono state cerate una serie di banche dati autonome ed espandibili, divise per caratteristiche dei dati e per i controlli abilitati a ciascun livello.
Una banca dati separata, invece, servirà per veicolare la messaggistica interna e le comunicazioni istituzionali, che nella maggior parte dei casi sono articoli dedicati ai professionisti del settore. Anche in questo caso un sistema di labelling consente di legare i post/articoli a singole categorie di utenti (in base al ruolo ritenuto rilevante per loro, ma stiamo studiando come rendere la cosa interattiva) e, nel caso di recensioni di prodotto, all'azienda produttrice, così da creare uno storico degli articoli dedicati all'azienda. Punto fondamentale del network è la possibilità di commentare i prodotti recensiti (o catalogati in banche dati prodotti e accessibili con motori di ricerca interni). In questo caso, l'accesso al commento è effettuabile solo previa autenticazione e, in base a una serie di controlli inseriti a vari livelli delle banche dati, l'attivazione dei commenti è consentita solo a quelle categorie di utenti in grado di giudicare effettivamente i prodotti (ne risultano quindi esclusi, ad esempio, le aziende concorrenti e tutti gli iscritti sotto il suo ombrello, cioè i dipendenti, e gli utenti che approdano sul sito come esterni).
La stesura di una banca dati coerente ed efficace rappresenta, nella nostra idea, la colonna portante del progetto, ragion per cui mi sento di poter chiedere tranquillamente a chiunque suggerimenti o consigli.

Ancora sui business network

Prendo spunto da uno dei commenti fatti all'ultimo post, da social network a business network per approfondire in maniera maggiore cosa intendo per business network e perché questa formula dovrebbe, secondo me, garantire una rimuneratività rispetto al classico advertising. Nella mia personalissima concezione, e premetto che non sono ne un esperto di internet ne un guru del web 2.0, difficilmente un social network può garantirsi risorse sufficienti per vivere se punta esclusivamente sulla pubblicità intesa come banner. La domanda quindi è quella di porsi sì, dalla parte dei lettori, cioè pensando dei contenuti che possano essere accattivanti ma anche quello di pensare alla logica dell'investitore. Internet ha infatti imposto un modello completamente innovativo di pensare la comunicazione, in particolare quella trade. Se fino a ieri tutti puntavano su un modello leggermente empirico di pubblicità che enfatizzasse quasi esclusivamente il brand awarness e alla comunicazione passiva con l'utente, oggi tutte le principali agenzie media propongono campagne misurabili: campagne pay per clic o di impression sono all'ordine del giorno e il cliente investitore si aspetta di poter misurare il risultato del proprio investimento. Cosa centra il modello di business network? C'entra, perché oggi le case editrici b2b sono tra i pochi soggetti che dispongono di importanti database di professionisti di riferimento (anche se molti altri attori si stanno affacciando sul mercato, compresi i social network). Il valore aggiunto del riuscire a coinvolgere direttamente i clienti primari delle aziende non è quello di proporre delle campagne standardizzate. Per fare un esempio, esistono siti specializzati per idraulici, cuochi, avvocati e tanto altro ancora, ma questi professionisti, presi per una singola categoria, quanti sono? Se non vado errando (corregetemi se sbaglio), in Italia ci sono circa 15.000 negozi di ferramenta. Se un cliente vuole proporsi solo a questo tipo di categoria merceologica, quanto dovrebbe investire? E ancora, come può essere sicuro che i visitatori di un sito siano, effettivamente, tutti professionisti di questo settore? Se però si struttura un social network di ferramenta il cui accesso è consentito tramite autenticazione, allora si può stabilire con certezza quanti siano i visitatori interessanti per l'azienda inserzionista. Tuttavia, anche in questo caso, le campagne di impression non potrebbero mai portare a grandi entrate. L'idea quindi potrebbe essere quella di proporre degli investimenti pubblicitari differenti, fatti, anche questi, in un’ottica due punto zero. Avendo un database strutturato di professionisti di una determinata zona, ad esempio, si può pensare di vendere delle campagne sotto forma di avviso di un determinato evento, magari prendere anche le registrazioni e monetizzare il tutto in una campagna “adesioni”. Oppure in una zona riservata del social network si possono proporre delle recensioni di prodotto, ovviamente commentabili e valutabili dagli utenti professionali e vendere all'azienda un link dedicato per la richiesta di un preventivo personalizzato per le aziende trade. Le idee sono molte, ma volevo sapere cosa ne pensate e, nel caso aveste altre idee, vi prego di pubblicarle nei commenti, questo vuole essere uno spazio aperto a tutti.

lunedì 22 giugno 2009

Da social network a business network

Uno dei problemi maggiori dei network è quello di trovare la quadra del cerchio per rendere remunerativa la propria attività Si tratta di un problema che hanno molte aziende che, in un modo o nell'altro, hanno a che fare con la comunicazione. I social network, infatti, propongono un flusso "informativo" costante, in particolare e prevalentemente grazie a un ampio utilizzo di contenuti generati dagli stessi utenti (user generated content o UGC per chi ama gli acronimi). Il problema di queste realtà, tuttavia, è nel loro proporsi in maniera molto generalista (è il caso di facebook), con il risultato che l'investitore ha difficoltà a promuovere i propri prodotti. Non solo, è dimostrato che i messaggi pubblicitari non sono ben accetti quando vengono percepiti come un'intrusione nel proprio tempo libero e in definitiva sono veramente poche le persone che, chattando con qualcuno, cliccano su un banner. Diverso il caso di alcuni social network che si definiscono "professionali". Non sono in possesso dei dati sui ricavi di linked-in (il cui valore è comunque elevato) ma ritengo che, anche questo social network abbia più di un problema a captare fondi pubblicitari. C'è però un fattore, in questo secondo modello che credo rappresenti un passo importante per riuscire a trovare un modello funzionale per i social network del futuro. In primo luogo, una fonte di reddito de sito è rappresentato dall'upgrade del proprio account. Nonostante il sito permetta infatti un utilizzo praticamente completo delle sue potenzialità, con costi tutto sommato contenuti, l'utente può avere accesso a maggiori funzioni. Si tratta di un modello noto da tempo: dai giornali, che lasciano alcune notizie free mentre altre sono a pagamento, a tutti i vari siti di servizi e software gratuito che propongono dei demo con funzioni limitate. Ma se questo modello non è nulla di che, il fatto che un social network sia verticale su alcune tematiche rappresenta di sicuro un miglior argomento di vendita per la pubblicità. In questo caso, chi ha veramente appreso la lezione è MySpace, nonstante in questo momento di crisi questo "canale" abbia iniziato una importante cura dimagrante, infatti, il sito della News Corp di Rupert Murdoch ha affrontato un importante cambiamento: invece di continuare a inseguire il numero di contatti di Facebook si è orientato maggiormente alla specializzazione nel settore musicale, riuscendo a trainare un buon numero di inserzionisti nell'affare. Se quindi la specializzazione è l'argomento forte che gli investitori cercano sul web, la strada è quella di creare dei siti specializzati, sul modello di 2spaghi per le attività commerciali o de Gli Affidabili per quanto concerne i servizi.
Stiamo però sempre parlando di "social network", ossia delle reti di persone che condividono delle esigenze "sociali": dal ristorante alla ricerca dell'idraulico.
La vera inversione di tendenza, invece, potrebbe essere rappresentata da dei "business network", ossia delle reti professionali che, oltre ai contenuti generati dagli utenti possa offrire servizi a chi fa impresa o alle figure professionali interne alla filiera. La notoria difficoltà dell'impresa italiana a fare lobbing insomma, potrebbe essere superata attraverso un modello di networking professionale. I vantaggi sarebbero notevoli per tutti gli attori della filiera: dalle figure professionali, che potrebbero avere fondamentali informazioni direttamente dalle aziende, fino a queste ultime, che potrebbero garantirsi un contatto diretto con i "propri" clienti finali bypassando il balzello distributivo e quindi recependo un feed back diretto dagli utilizzatori.
Un buon esempio di Business Network lo ha realizzato un'azienda che opera nel campo della diagnosi delle autovettore, l'italianissima Texa, che grazie a una collaborazione con google ha realizzato (prima nel mondo) un ottimo strumento di condivisione della conoscenza tra operatori professionali che invito ad approfondire per chiunque di occupi di informazione.
I limiti dell'iniziativa sono nella scarsa condivisibilità delle informazioni: l'accesso a questa banca dati di soluzioni, infatti, avviene attraverso uno strumento, ovviamente dell'azienda stessa, un po' come sta provando a fare Amazon con il suo Kindle (in questo caso possiamo finalmente dire che noi italiani siamo arrivati prima).
A questo punto mi sorge però una domanda: perché l'editoria ha lasciato il campo a tutte queste attività a quelli che potrebbero essere i propri inserzionisti? Perché non sono gli stessi editori a lanciare dei progetti di business network?
Una delle risposte me la diede un importante amministratore delegato di una delle più importanti case editrici b2b italiane, che sosteneva che il ruolo dell'editore è quello di pubblicare articoli e fare informazione. Su questo tema però non mi sento in accordo con lui, perché una casa editrice non può creare dei contenuti attraverso i propri lettori? e inoltre, chi vieta di proporre anche dei contenuti editoriali all'interno di un social network?
Come accennato la casa editrice per la quale lavoro sta oggi provando a creare un modello (che spero vedrà la luce nel 2010) che possa riassumere tutte queste caratteristiche, ma oggi mi chiedo e chiedo a chi legge quali sono i punti deboli dell'analisi e quali possono essere i correttivi da mettere in campo.

mercoledì 27 maggio 2009

Creazione sito per editoria b2b

Ho accennato nei precedenti post alla necessità delle case editrici di riviste b2b di aggiornarsi e modificare il proprio modello di business. Per dare seguito a questa idea di base, abbiamo iniziato, con lo staf tecnico della mia casa editrice, la realizzazione del sito b2b  relativo a un gruppo di riviste del settore automotive per la quale lavoro. Di seguito porrò alla vostra attenzione i passaggi che stiamo adottando per la realizzazione di tale sito, le premesse e le regole "generali" che intendiamo seguire nella sua realizzazione. Lo scopo di questa trattazione, quindi, è quello di creare un modello economico che funzioni per i siti delle riviste tecniche.

Trattandosi di una rivista b2b lo scopo del sito è quello di creare una community attiva che possa scambiarsi informazioni a livelli differenti con autorizzazioni parziali. 

Prima di iniziare l'analisi è necessario dare alcune definizioni per semplificare l'argomento ed evitare confusione.

Utente Internet: un qualsiasi utente che naviga in internet e capita sul sito attraverso i motori di ricerca o per segnalazione su altri siti.

Professionista: il titolare dell'attività cui si rivolge la rivista b2b in forma cartacea, cioè il target reale della rivista.

Azienda: le società che generalmente rappresentano gli inserzionisti della rivista, o comunque, qualsiasi attore che abbia la necessità di comunicare alla propria filiera distributiva.

Dipendente: un utente registrato che lavora alle dipendeze di un professionista o di una azienda .

Di seguito ho rappresentato in forma schematica le opzioni abilitate ai vari livelli. 


L'utente internet, cioè il navigatore casuale deve poter accedere ai servizi offerti dai lettori delle riviste b2b e poterne valutare la qualità. 

es. il lettore di una rivista di prodotti per il bar è il titolare di un bar: l'utente deve poter accedere alla descrizione del bar e giudicarne la qualità, il servizio e dare indicazioni sulle caratteristiche. Il volano di tale partecipazione può esser eil titolare stesso che consiglia i suoi clienti abitudinari a giudicarlo bene su internet.


Il professionista o il titolare dell'attività può pubblicizzare la propria attività su internet in maniera georeferenziata a costo zero ma non può emettere giudizi nei confronti delle attività come la sua (cioè i propri concorrenti). Inoltre può essere un membro attivo della comunity professionale e ha accesso alla banca dati di quelli che "notoriamente" sono le aziende inserzioniste delle riviste b2b, cioè aziende manufatturiere, di distribuzione e di servizi. Solo l'utente professionale può esprimere giudizi su prodotti e servizi delle aziende registrate.

es. Il barista ha accesso ai prodotti e servizi offerti a chi fa la sua professione e può giudicare la qualità, l'efficienza eccetera di una attrezzatura che possiede, o il livello di servizio di un distributore, così come la qualità di un servizio.

L'azienda ha la possibilità di promuovere gratuitamente i propri prodotti e servizi al proprio pubblico di riferimento, nonchè la possibilità di farsi conoscere anche da un pubblico potenzialmente infinito che ignora la sua attività. L'azienda non può effettuare alcun commento onde evitare il rischio di inquinare il buzz del sito.
 
Il dipendente ha le limitazioni della società per la quale lavora

Nonostante le varie tipologie di utena abbiano differenti possibilità di interazione attiva con il sito, tutti possono consultare in sola visione il sito internet. La home page (quanto suona di vecchio questa definizione) è tutta orientata all'utente internet, con un solo link ben evidente al reparto professionale.

Per il momento questa è la bozza del nostro progetto, in seguito spiegerò come pensiamo di strutturare la banca dati, come promuovere il progetto e come monetizzare il tutto (non necessariamente nell'ordine citato.

sabato 16 maggio 2009

Editoria b2b: quale futuro?

Mi occupo oramai da qualche anno di editoria b2b e spesso mi chiedono se questo settore sarà destinato, come gli altri media, a una complessiva rivoluzione in termini di modello di sviluppo.

Credo sia semplice affermare che anche l'editoria b2b è editoria, quindi come tutta l'editoria è in crisi e come tutta l'editoria è destinata a subire un processo di modernizzazione e adattamento per il futuro, ma con non pochi distinguo.

Nonostante qualche ricerca fatta su internet non so' datare la nascita dell'editoria b2b in Italia (se qualcuno avesse informazioni e le mettesse nei commenti ne sarei grato), ma la casa editrice per la quale lavoro ha sicuramente più di cinquanta anni. Tuttavia, quello che mi è chiaro, sfogliando le vecchie riviste pubblicate da questa casa editrice è che, fondamentalmente, l'editoria b2b, anche detta stampa tecnica è, da sempre e per sua natura, qualcosa di leggermente differente rispetto alle restanti forme di informazione. 

A mio modo di vedere, le pubblicazioni b2b contengono  tre differenti anime: da una parte c'è la  "tecnica", cioè la spiegazione dei processi e di come svolgere il proprio lavoro ai vari professionisti cui sono rivolti, così una rivista per idraulici conterrà tutti i trucchi "tecnici" per risolvere i vari problemi che l'artigiano incontra durante il proprio lavoro. In secondo luogo c'è un anima "commerciale",  che spiega ai propri lettori come sviluppare il proprio business. Infine, una piccola parte giornalistica, che indaga (o dovrebbe) sui problemi del settore di riferimento e fa luce sui fatti poco chiari. In maniera differente  e con percentuali molto varie, questo tipo di anime sono contenute in tutte le riviste b2b. 

L'editoria B2b ha lo scopo di informare una determinata filiera produttiva, mentre, si mantiene sostanzialmente attraverso la pubblicità (l'approvvigionamento da abbonamento funziona parzialmente solo nel caso di testate scientifiche, differenti da quelle tecniche).  

Il punto cruciale dell'editoria b2b, come di tutta l'editoria è quindi sempre lo stesso: a fronte di una costante emorragia di introiti pubblicitari, questa forma di media deve cambiare il proprio modello di business.
Ma la pubblicità dell'editoria tecnica ha almeno un vantaggio: tratta esclusivamente questioni legate agli addetti ai lavori e non subisce migrazione verso i grandi media main stream. Quindi, a differenza dei giornali e delle riviste consumer, l'editoria b2b non ha subito grandi scossoni negli ultimi anni. 

Per il futuro, invece, il problema si manifesta con maggiore portata: questo tipo di editoria, infatti, dovrà fare i conti in maniera importante con il web 2.0, così come con le nuove formule di marketing diretto e buzz analisys che sempre più le aziende stanno imparando ad utilizzare.
Il motivo della tenuta dell'editoria b2b, infatti, è proprio nella sua capacità di legare i vari attori della filiera: piccoli soggetti e grandi multinazionali hanno la possibilità di farsi conoscere dai propri potenziali clienti diretti in maniera mirata, con il vantaggio di costi non esagerati tipici dei media main stream e soprattutto evitando dispersione di energie. Ma se le grandi aziende hanno la possibilità e la capacità di utilizzare uno strumento come internet possono accedere direttamente questo tipo di pubblico. Certo, probabilmente i tempi saranno più lunghi, ma il vantaggio è, oltre a un contatto diretto con i propri clienti, anche una maggiore visibilità verso il grande pubblico che non conosce i processi e i meccanismi che si nascondo dietro il mondo produttivo moderno. Per dirla con i termini propri del marketing, insomma, le grandi aziende, oltre a comunicare con i propri clienti, hanno la possibilità di fare "brand awarness" con tutti i visitatori dei propri siti.

Ma torniamo all'editoria b2b. Se questo scenario si avverasse, come potrebbe guadagnarci l'editoria b2b? Il rischio è quello che, l'eventuale rivista b2b, risulti come uno strumento ridondante, poco utile all'inserzionista, che agisce direttamente. Non solo, le riviste di settore non sono  in grado neanche di pretendere il pagamento dai propri lettori, che potrebbe essere un'alternativa fonte di reddito. I costi per il lettore sarebbero troppo alti, ma soprattutto le riviste b2b sono, quasi sempre, certificate e a circolazione garantita; quindi indipendentemente dal numero dagli abbonati ne vanno spedite un certo numero. Il lettore, sia abbonato sia no, generalmente le riceve comunque, magri se non è abbonato non le riceve tutti i mesi, ma in fondo è gratis e alla maggior parte della gente va bene così.

Cosa stanno facendo gli editori oggi? In generale, puntano su vari modelli sussidiari, che sfruttano il know-how e la visibilità delle riviste per generare profitto: c'è chi organizza corsi di formazione, chi fiere ed eventi, chi vende informazioni in merito alle importanti banche dati di professionisti di cui sono in possesso (la vera forza di una rivista b2b è proprio la sua banca dati del settore) e cerca di portare la propria esperienza su internet.

Proprio su questo punto però, la mia idea è che nessun editore b2b abbia compreso appieno questo strumento e non sia in grado di utilizzarlo a dovere per diversi motivi.

Cosa offrono oggi le testate b2b sul web? Alcune di esse propongono gli stessi contenuti che pubblicano sulla rivista, cioè, in sostanza la rivista sul web. Altri, leggermente più lungimiranti hanno iniziato a lanciare dei "portali di informazione" del settore, pochi, infine hanno iniziato a sfruttare le poche banche dati per utilizzo professionale e ancora meno hanno intrapreso la strada delle community (perlopiu con risultati operativi non all'altezza dell'investimento).

Questa staticità del sistema editoriale trade dimostra come in realtà nessuno dei modelli studiati funzioni. Ciò che, secondo me sta mancando agli editori b2b è il focus sul ruolo di questo tipo di editoria all'interno della filiera produttivo/distributiva. Se ciò che rende, a livello di ritorno economico è il rendere possibile il contratto tra i vari stadi della filiera, ebbene, oggi l'editore on-line rischia di divenire un doppione di ciò che già fa l'azienda stessa.

La forza della comunicazione b2b è sempre stata quella di offrire dei target di riferimento ai propri inserzionisti, concetto totalmente estraneo alla logica di internet. Per questo oggi un buon editore b2b dovrebbe strutturare delle community tese al propagarsi dell'informazione "tabellare", con strumenti di vendita basati sui servizi: per l'inserzionista, in un ottica di pay per clic mirato, mentre  per il membro della community di acquisto di informazioni o servizi.
Se però le informazioni destinate agli operatori professionali sono relegate "gioco forza" a un'area riservata, bisogna indiscutibilmente pensare che internet è aperto a tutti, quindi perché non sfruttare anche la parte così per dire pubblica? Gli editori b2b, insomma, dovranno sporcarsi per forza le mani con informazioni "consumer" che non necessariamente devono essere generate da giornalisti (mi metto nella categoria di rischia il posto in questo caso) ma più verosimilmente dalla stessa community di professionisti, che a questo punto possono essere interessati ad avere una maggiore visibilità nei confronti del proprio pubblico.  
Sintetizzando, quindi, credo che l'editoria b2b possa avere un buon futuro davanti a se solo se saprà reinventarsi partendo dall'origine, ossia dalla sua capacità di mettere in contatto i vari attori della filiera di un comparto: dai produttori fino, questa volta, agli utenti finali.


lunedì 4 maggio 2009

Editoria, web e professione giornalistica: il futuro non è alle porte


Che il sistema informativo mondiale sia destinato a cambiare sembra essere un fato di fatto. Non è possibile pensare che i ricavi della pubblicità riescano a compensare le spese che un giornale è chiamato a sostenere in termini di personale, inchieste, strutture e, perché no, idee. Il problema è stato analizzato da molti, lo so, ma il punto è che nessuno, finora, ha trovato soluzioni convincenti, dei modelli di business che riescano a compensare l'emorragia economica che sta investendo quotidiani, mensili, settimanali, riviste specializzate e tecniche. Il problema dell'editoria non mi sembra differente da quello di altri settori industriali: troppi attori, troppa produzione. Ma il problema editoriale presenta una peculiarità aggiuntiva rispetto allo stallo capitalistico in cui si trova l'economia globale: se il settore delle automobili crolla perché sovradimensionato rispetto alla domanda ci sarà un ridimensionamento della produzione, alcuni attori spariranno e, forse, in un futuro prossimo si arriverà a quanto ha previsto qualche tempo fa l'ad di Fiat Auto Marchionne, cioè una selezione durissima degli attori in grado di fagocitare i più piccoli e costituire pochissimi poli di produzione con alti volumi. Se questo sarà il futuro dell'industria manifatturiera, cioè la concentrazione dei volumi nelle mani di pochi, lo si vedrà nel breve o medio periodo, ma l'idea di base non è pellegrina, nasce da alcuni importanti presupposti: la produzione richiede investimenti importanti in infrastrutture e persone, specializzazione e formazione delle maestranze. Che c'entra tutto questi con l'editoria? Niente, o per lo meno molto poco. Un'ipotesi analoga, infatti, può forse essere posta a livello di produzione di media cartacei. La carta non morirà in breve tempo, i tempi sembrano, qualora dovesse realmente accadere, molto più lunghi rispetto ai necrologi e coccodrilli scritti sul web da migliaia di blogger o di giornalisti. Ma la carta rappresenta un costo inderogabile e oggi, a spartirsi la torta pubblicitaria sono molti, forse troppi attori nel mondo. Chi avrà la forza resisterà, magari si riadatterà con modelli più snelli ed efficaci, probabilmente mixando la produzione cartacea con le risorse web.
Il web. È qui che il sistema viene a cadere. È vero, oggi si parla di citizen journalist, di persone pronte a dedicare il proprio tempo all'informazione collettiva, al bene comune. Di per se, si tratta di uno scenario positivo: la condivisione dell'informazione fa crescere la società e la maturità sociale, ma in tutto questo l'editoria, che ruolo avrà?
Gli introiti pubblicitari non sono più destinati a pochi e ben riconosciuti attori, il capitale investito nella comunicazione si sparge con un effetto a macchia d'olio sul web e chi cerca di afferrare questo “oro nero” se lo vede scivolare facilmente dalle mani in funzione di piccoli attori, dai grandi numeri.
Quali sono i rischi di questa situazione? Chi è deputato a fornire informazioni valide e certe? Chi pagherà i giornalisti di domani?
Oggi tutti si pongono questa domanda e alcune soluzioni sono già state messe in campo: c'è Al Gore, che grazie al citizen journalism riesce a captare una quota di investimenti pubblicitari tali da finanziare inchieste sul campo nei luoghi più remoti, c'è l'Huffington post, che aggregando notizie dai grandi media può permettersi tre redazioni sparse negli Stati Uniti. Non solo America, anche in Europa alcuni esempi positivi sono riusciti a pagare una parte di spese, specialmente grazie all'utilizzo di blogger stipendiati, la cui figura mi risulta, francamente, difficile da scindere rispetto a quella del giornalista freelance o di redazione. Ma il web ha anche posto nuovi e interessanti quesiti. Per quanto riguarda i quotidiani, ad esempio, e le notizie, diciamo così “main stream”, il problema è relativo alla sorgente di tali notizie. Se aggregando le notizie provenienti dai principali mezzi di comunicazione si creano ottimi siti internet di informazione, è anche vero che questa operazione andrà mano mano a erodere i margini del produttore primario, portandolo, lo abbiamo già visto, in alcuni casi, anche al fallimento. ma se non ci saranno più notizie “primarie”, quali notizie si aggregheranno? Banale. Non solo però, il marketing 2.0, quella tecnica per cui i propri prodotti possono essere posti all'attenzione dell'utenza attraverso la rete, in maniera diretta, porterà inevitabilmente un impoverimento delle casse dei giornali e media tradizionali, con un netto spostamento dei capitali verso blog, forum, community e mobile web. Una possibile ecatombe, anche perché l'informazione pubblicitaria sarà sempre più collegata e implementata con l'informazione. Ma se editore e giornalista sono destinati ad essere la stessa persona chi controllerà la qualità delle informazioni? Probabilmente sarà la stessa rete ad autoregolarsi: il web è una forma di democrazia evoluta, se un post, un commento, una descrizione di un prodotto non piacciono o sono ritenute poco oggettive il decreto è rapido, il sito perde visite e i giudizi negativi imperversano.
Chi sono gli editori del futuro? Sono già qui. pochi se ne sono accorti, ma non è un caso se i più grandi introiti pubblicitari del mondo web sono detenuti da tre attori come Aol, Msn finance e Yahoo finance. Tre nuovi editori che non propongono giornali o riviste, ma piattaforme. Così come, in breve tempo diventerà Google, una piattaforma, anzi, molto probabilmente La Piattaforma. Che differenza c'è tra un editore tradizionale, che mette a disposizione di un direttore e del suo staff giornalistico un mezzo come la carta stampata, certo comprensiva di strutture e processi costosi rispetto a chi mette a disposizione di una redazione on-line una piattaforma informatica fatta di bit e un posizionamento nei motori di ricerca? La Torta è troppo piccola per gli attori che popolano il web. La pubblicità non può stipendiare l'intera filiera, che, per inciso, va dal gestore telefonico fino al fornitore di software.
Qualcuno deve togliersi di mezzo, oppure qualcuno deve rinunciare a una fetta della torta, ma chi è disposto a rinunciare a qualcosa oramai dato per consolidato? Non gli utenti, abituati a non pagare per consultarle notizie on-line, non i gestori telefonici, veri depositari dell'accesso al web, ne gli autori, che fino ad oggi hanno lavorato con stipendi discreti, ne, ovviamente gli editori.
Quale sarà il risultato è difficile prevederlo, ma il rischio è che abbiano peso, nel futuro del web, solo le notizie in grado di generare ricavi.
C'è poi un ultimo aspetto che mi piace affrontare, e di cui troppo poco spesso si parla ragionando sull'editoria e sul web. Le notizie on line, non si esauriscono con la loro messa in onda, così come avviene con i giornali e i telegiornali. Esse rimangono a lungo tempo nel web, anche un tempo potenzialmente infinito, continuando a generare, magari, reddito e di conseguenza a salire nel ranking dei motori di ricerca vista la rilevanza che hanno nei confronti di una determinata frase di ricerca. Così in futuro, tranne che i prodotti e notizie altamente innovative ci sarà ancora spazio e, forse, visibilità, mentre per tutto ciò che non è indicizzato è destino che si paventi l'oblio. Il punto è, chi è depositario di questo immenso potere, chi è l'editore supremo? Probabilmente Google, il motore di ricerca più utilizzato al mondo, home page di miliardi di pc e in grado di rilevare, grazie a un algoritmo, la rilevanza di una notizia rispetto a quanto cercato. Oggi, quindi, tutti gli editori, i giornalisti, chi utilizza il web deve porsi una domanda: chi è l'editore? se storicamente l'editore è colui che detta la linea editoria allora l'editore è Google, le cui stamperie sono i provider e i giornalisti quelli che oggi chiamiamo editori. C'è una metafora che mi è sempre piaciuta da quando faccio il giornalista: il direttore di una testata ne è il re, un re pagano però, messo lì dal volere di un dio. Quel dio è l'editore, che può decidere la vita e la sorte di ogni giornale. Oggi dio è Google, un dio potentissimo e unico, perché a differenza dei vari giornali è da solo a detenere il potere. La diatriba quindi potrebbe essere se la società è pronta a un sistema con un dio unico e potente a dominare il mondo e posto in alto a guardare gli uomini editore scannarsi tra di loro senza intervenire e un sistema più pagano, con tanti piccoli dei, ognuno dei quali, in fondo innocuo e litigioso, che provano a scalare l'olimpo del sapere?